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Michele Simeoni

Ho iniziato a fotografare a 17 anni, per passione, oggi sono un giovanotto di 65, ma la mia passione è immutata. Fotografo prevalentemente in bianco e nero perché, come ha scritto il fotografo Andri Cauldwell, “Vedere a colori è una gioia per l’occhio, ma vedere in bianco e nero è una gioia per l’anima”. Con le mie fotografie intendo celebrare la bellezza della natura nelle sue diverse espressioni, non solo quella fragorosa della fioritura estiva o quella strepitosa dell’autunno, ma anche quella più dimessa, meno appariscente, prodotta dalle  metamorfosi che avvengono con l’alternanza delle stagioni, a cui quasi nessuno riconosce una carica emotiva o un valore estetico: penso alla bellezza di una foglia che a fine stagione si stacca dall’albero e si piega su se stessa, assumendo forme che nessuno scultore saprebbe riprodurre, a quella della buccia raggrinzita di una mela, così simile al volto di un vecchio saggio, a quella di un albero che perde tutte le sue foglie mostrando fiero il suo scheletro al vento, la bellezza struggente di un fiore che a fine stagione avvizzisce. 

Da qualche anno mi dedico anche alla fotografia di nature morte, un genere che tocca temi universali, senza tempo, ai quali oggi siamo tutti particolarmente sensibili quali la fragilità della natura e la sua effimera bellezza, un ammonimento alla fugacità dell’esistenza, la Vanitas

Fin dall’inizio, però, il mio soggetto d’elezione è stato il paesaggio, in particolare quello maestoso delle Dolomiti verso il quale sento di avere una forte connessione emotiva: è quello legato agli anni della luce senza ombre, dello splendore abbagliante della dolomia che contrasta con il verde degli abeti e con il cielo cobalto, dell’alta montagna.

Fotografo a colori quando intendo duplicare la realtà e sfruttare il colore per suscitare una emozione, ma il limite della fotografia a colori è, per me, l’eccessivo realismo, la predominanza del colore che distrae e lascia poco spazio alla composizione dell’immagine e all’immaginazione. 

Fotografo in bianco e nero quando voglio riprodurre la mia percezione della realtà, focalizzare l’occhio dell’osservatore sul contenuto dell’immagine, la composizione, la luce, eliminando il superfluo, il colore, e trasmettere un’emozione, quella che io per primo ho provato realizzando la fotografia. “Se piace a te”, dice il grande fotografo Bruce Barnbaum, “da qualche parte ci sarà qualcun altro che l’apprezzerà”. Quando fotografo in bianco e nero non intendo quindi rappresentare la realtà ma anzi uscirne, attutire il costante rumore di fondo dei pensieri per entrare, attraverso il mirino della fotocamera, con l’occhio e la mente nel regno della luce, delle ombre e delle sfumature di grigio. Per un fotografo l’occhio e la mente sono ambedue importanti. Goethe esprime efficacemente questo concetto,  “L’occhio vede ciò che la mente conosce.”
La fotografia”, ha scritto il fotografo Don McCullin, “per me non è guardare, è sentire. Se non riesci a sentire quello che stai guardando, non riuscirai mai a far sentire agli altri qualcosa quando guardano le tue foto”. 

La fotografia in bianco e nero rivela, più del colore, non solo ciò che si trova davanti alla macchina fotografica, ma ciò che c'è dietro la macchina fotografica; il fotografo.

Le immagini più significative non nascono solo dall'esperienza fotografica ma anche dall'esperienza di vita del fotografo e dovrebbero in qualche modo esserne l'autoritratto, squarciare il velo che nasconde gli aspetti più intimi del suo carattere. Ad Ansel Adams, il più grande paesaggista in bianco e nero  nella storia della fotografia, lascio l’ultima parola, una verità per me  assoluta, “Tu non fai una fotografia solo con la macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai ascoltato, e le persone che hai amato."

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I laghi dei piani

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Val d'Orcia

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Vitaleta

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The Oculus

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Belvidere Pond

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Mondeval 

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Foglie 

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