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Christo, quando l’arte supera i confini dello spazio

Aggiornamento: 4 giu 2020

Francesca Pardini

Christo, un nome impegnativo, di origini bulgare (Christo Vladimir Javacheff, 1935 Gabrovo, Bulgaria - 2020 New York) nasce nell’est europeo, si sposta a Parigi e supera i confini europei per arrivare oltreoceano. Lo ricordiamo come uno dei maggiori esponenti della Land Art, anche chiamata Arte Ambientale.

Un’arte che dalla fine degli anni ’60 si è proiettata oltre il limite di uno spazio misurabile, percepibile all’occhio. La concezione di una ricerca artistica presentata all’interno degli spazi museali viene messa in crisi in quegli anni e riproposta attraverso sperimentazioni, performance, happening che si fanno strada all’interno di cantine, fabbriche, garage, spazi alternativi, fino ad uscire dai limiti circoscritti e diffondersi all’esterno. Pratiche artistiche dalla vita effimera ma destinate a cambiare radicalmente il modo di porsi dell’artista, dello spazio e dell’osservatore, chiamato ora a vivere un’esperienza delle opere tale da coinvolgerne i sensi in maniera più diretta.

“È molto più difficile pensare ad un’opera provvisoria che ad un’opera permanente nel tempo” dice Christo, ben sapendo che il passaggio da un’idea di spazio come contenitore di un’opera unica ed eterna all’idea di un’opera temporanea in grandi luoghi aperti, porta con sé una grande sfida.

La natura stessa viene come catturata dall’occhio visionario di Christo con opere dal forte impatto ambientale che alterano la nostra abituale conoscenza dell’ambiente che ci circonda. Nei suoi 84 anni ha costantemente lavorato con la sua compagna Jeanne-Claude Denat de Guillebon conosciuta a Parigi (venuta a mancare nel 2009) organizzatrice e mente di pari talento con cui ha condiviso la sua ricerca.

Stendere 400 metri di telo lunghissimo tra le Montagne Rocciose, (dal 1970 al 1972 con Valley Curtain) così come appendere 40 km di teloni bianchi appesi da montanti metallici attraverso i paesaggi californiani, (1972 al 1976 Running Fence), è il poter tracciare la propria simbiosi con la natura creando dimensioni spaziali impercettibili ad occhio nudo, e rendere l’intervento dell’uomo sulla natura non solo simbolo di un atto distruttivo ma segno di un atto capace di valorizzarla e renderla protagonista. È conosciuto anche come l’artista degli “imballaggi”, processo in cui propone ciò che nell’arte contemporanea si presenta continuamente, seppur con modi diversi, dall’inizio del ‘900. Quello di togliere alla vista, di eliminare, cancellare o sottrarre per riaccendere la curiosità, ed enfatizzare qualcosa che abbiamo l’abitudine di vedere sempre allo stesso modo. E cosa c’è di più scontato del notare i monumenti più celebri delle nostre città, a scapito di tutto ciò che è normalmente nascosto? Che valore si dà ai monumenti che fanno parte della nostra memoria storica quando non diventano solo piccoli collage da cartolina?

Ecco con Christo abbiamo visto imballare edifici come la Kunstalle di Berna, in Svizzera, il monumento a Vittorio Emanuele II a Milano, Porta Pinciana a Roma, Pont Neuf a Parigi, il più vecchio ponte della capitale francese e il Reichstag di Berlino. Tessuti industriali e colori sgargianti (giallo, ocra, arancione e argento per citarne alcuni) regalano a storiche architetture convenzionalmente riconosciute nuovi volumi e una nuova identità, creando con il paesaggio limitrofo un nuovo dialogo. Chi non ricorda l’effetto di Surrounded Islands (1980-1983) dove le isole di Biscayne a Miami vennero circondate da una cintura di polipropilene fucsia? Christo unisce i contrasti visivi memori del fotografo tanto amato Man Ray, allo studio dei materiali condotto dal genio di Joseph Beuys.

Impacchettare, coprire, avvolgere e legare evocano un’idea di possesso e di chiusura ma allo stesso tempo suggeriscono quella di sorpresa, di mistero, e di attesa di un nuovo svelamento.

Ricordiamo l’ultimo dei suoi lavori ancora oggi testimone di un’esperienza multisensoriale unica, realizzato in terra nostrana. Con The Floating Piers (2016), ecco una passerella lunga 4,5 km sul Lago d’Iseo creata da ponti galleggianti di polietilene arancione. Migliaia di visitatori possono dire di aver camminato sull’acqua del lago attraversando chilometri di colore arancione: con un nome così, si può dire che il miracolo l’ha fatto anche lui.


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